mercoledì 10 febbraio 2016

Trigesimo

Un mese fa sono tornato a casa da un viaggio, apro la porta e la donna che abita lì mi dice: "Hai visto chi è morto?" Non sono ancora entrato, ho solo aperto la porta. Chiedo se si tratti di un parente suo o mio. "Indovina!" mi dice. Io però non voglio indovinare. Quando Micheal Jackson morì mi tenne venticinque minuti a telefono perché non riuscivo a indovinare ("È famoso?" "Famosissimo" "Il Papa?" "Di più!" "Obama?" "No!" "I Beatles? Quelli che restano, voglio dire") ed ero in coda all'aeroporto e lasciavo passare le persone in coda dietro di me perché una volta a bordo il telefono avrei dovuto spegnerlo.
"Non voglio indovinare: dimmelo subito, per favore".
"David Bowie".
"Non è possibile: è appena uscito l'album, deve fare il tour".
La radio però è accesa e le parole "beauté" e "androgyne" fugano ogni dubbio.
Che qualcuno muoia è nell'ordine delle cose; è anzi la cosa più prevedibile che ci sia al mondo. Nel suo caso forse molti avrebbero trovato più opportuno che venisse rapito dagli alieni o che, non so, sparisse nei meandri di un labirinto; dissolto in un modo o nell'altro, come ogni artista, nella sua opera.
Una settimana fa sono venuti a cena Emilie e suo figlio Lilian, di quattro anni. A casa c'è una cartolina, souvenir di una mostra dell'anno scorso su Bowie alla Philharmonie de Paris: il mezzo busto di Aladdin Sane, il fulmine sul volto. Lilian la indica e dice: "David Bowie! Quello che canta Rebel Rebel!" Non che rischiassi di dire: "cantava", ma per sicurezza Emilie mette l'indice davanti alle labbra per assicurarsi che non faccia gaffes. La morte di David Bowie come l'inesistenza di Babbo Natale.

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